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7 ottobre 2013 1 07 /10 /ottobre /2013 21:40

La Via Lattea vista da Gallipoli, Turchia - fonte httpwww.twanight.org, Tunk Tezel

Ormai è noto: il nostro piccolo universo si autogestisce grazie all’alternarsi più o meno regolare di fenomeni ciclici che coinvolgono tutta la galassia. All’apparenza, l’evento sembra interessare il singolo pianeta o astro, ma va da sé che ogni corpo celeste venga in qualche modo coinvolto dal fenomeno; si hanno così delle reazioni a catena.
Quello che ci interessa da vicino è l’effetto di risonanza che si genera sulla Terra, “rivestita” da un da un campo magnetico che poggia su tutta una serie di delicati equilibri.

Un processo tipico, che si ripete ogni 11 anni, è quello dei cicli solari.

 

Costellazione di Orione - Fonte Akira Fujii

Situato nel braccio di Orione, un ramo minore della nostra galassia, e classificato per tipologia come nana gialla, il Sole è la stella madre della Via Lattea e orbita al centro del Sistema Solare. Quest’ultimo è così definito per via dei vari corpi celesti che gli ruotano intorno e ne vengono illuminati e riscaldati. Tra questi, la Terra, che grazie alla luminosa stella risente del clima e delle manifestazioni atmosferiche tipiche delle varie stagioni.
Precursore nello studio delle macchie solari fu Galileo nel 1600, grazie ad un improvvisato cannocchiale che gli permise di guardare gli astri a distanza ravvicinata. Seguace della teoria Tolemaica che poneva la Terra al centro dell’Universo, lo scienziato si accorse che le macchie mutavano in base all’orario di avvistamento e alla latitudine; comprese così come il Sole non potesse essere una stella fissa, ma in movimento. In realtà già anticamente erano state individuate delle macchie sulla superficie del Sole, ma delle stesse non era fatta menzione neppure nella Bibbia.

Le formazioni si localizzano sulla fotosfera, manifestandosi con una zona centrale piuttosto scura, il nucleo, circoscritta da una parte grigia, la penombra, dal contenuto non uniforme e costituito da filamenti chiari e scuri che sembrano convergere nel nucleo. Le macchie hanno dimensioni e forma variabile quasi continuamente, a causa della elevata temperatura della fotosfera. Fenomeni temporanei sulla parte più esterna del Sole, appaiono visibilmente come macchie scure rispetto alle regioni circostanti. Sono causate da una intensa attività magnetica e, come tutti i magneti, hanno anche due poli.

La conferma della ripetitività delle macchie solari è piuttosto recente. Il fatto che queste potessero variare in modo ciclico era stato supposto già nei primi decenni del 1700 dall’astronomo Christian Horrebow, che aveva visto nell’alternarsi delle formazioni, una certa regolarità. La ricerca fu tuttavia pubblicata postuma rispetto alla sua morte, e solo dopo che nel 1851 era stata resa nota un’opera con contenuto simile. La teoria era formulata del tedesco S. H. Schwabe, dal quale il ciclo solare prese il nome. Già a metà ‘700 si calcolava approssimativamente la durata dei cicli, che avevano lunghezza variabile da un minimo di 7 anni ad un massimo di 17. Si decise allora di stabilire una durata media del ciclo solare di Schwabe, in 11,4 anni e, per convenzione, stimare l’inizio di un ciclo con un minimo di macchie, culminante in un numero molto alto, che terminava con lo stesso valore minimo.

Solar flare 2012 - fonte www.dailyworldpost.com

Ad oggi, manca una teoria che spieghi l’andamento undecennale del ciclo solare ma si stima che le macchie siano forti campi magnetici che, provenendo da regioni sottostanti, risalgono verso la fotosfera e trasportano l’energia verso l’esterno, in una sorta di esplosione. Motivo per cui all’apice del ciclo avvengono espulsioni di massa coronale esplosive, dette CME, che lanciano particelle ad alta energia verso l’esterno.

Il Sole mostra negli ultimi anni un cambiamento non indifferente nella superficie più esterna e questo ha fatto e fa temere per le implicazioni che le esposizioni alle radiazioni solari potrebbero avere per la vita sulla Terra. Si parla sempre più spesso di tempeste solari, attraverso le quali il vento generato dalle espulsioni di massa coronale raggiungono l’atmosfera ad elevata velocità, mettendo seriamente a rischio le telecomunicazioni e gli spostamenti aerei.

Avvertimenti di un certo rilievo erano stati già diffusi dalla NASA negli anni precedenti. Dal 2009 l’organizzazione governativa parla di una “bolla di plasma” emessa dal Sole che tra il 2012 e il 2013 avrebbe messo a serio rischio il campo magnetico terrestre. Nei vari comunicati si paventava uno “spegnimento” vero e proprio del pianeta: la configurazione del campo magnetico sarebbe mutata, secondo l’Ente, a causa delle forti radiazioni solari, inducendo un sovraccarico di tensioni tale da fondere generatori e trasformatori di energia. Qualche studioso ipotizza un legame tra un simile evento e i famosi 3 giorni di buio, di cui parlarono gli Hopi, ma anche Padre Pio.

Al di là delle congetture religiose o spirituali, è chiaro che una società come la nostra, basata su comunicazioni radio, GPS, trasmissioni wireless che viaggiano con una rete di informazioni sostenuta dall’etere non potrebbe resistere. Una tempesta geomagnetica di portata elevata comporterebbe una devastazione economica e sociale potenzialmente catastrofica.

Dejà vu, potremmo dire, poiché a un secolo e mezzo di distanza, il fenomeno rischia di ripetersi.

Il 1859 non fu un anno facile per le comunicazioni, anche se all’epoca quello colpito fu “solo” il telegrafo, che rimase inattivo per circa 14 ore.

Evento Carrington - Royal Astronomical Society - NASA

Agli inizi della società industriale, la brusca interruzione delle comunicazioni poteva risultare quasi un gioco, rispetto a oggi. Non passò però inosservato, grazie ad un astronomo che permise di focalizzare l’evento su ciò che lo aveva scatenato. Il fenomeno, noto come Evento Carrington, prese il nome dallo studioso inglese che si dedicò allo studio delle macchie solari e agli effetti che le tempeste geomagnetiche erano capaci di produrre. All’epoca, una delle particolarità del fatto fu un’aurora boreale visibile anche a latitudini inconsuete, come nel caso di Roma. L’evento venne citato ne “La società cattolica”, una rivista tra le più antiche del panorama italiano, edita dalla Compagnia di Gesù, e descrive nel dettaglio tutta la sua durata.

Secondo David Hathaway, fisico solare, responsabile del team della NASA Marshall Space Flight Center di Huntsville, in Alabama, “Ciò che vide Carrington era un’esplosione magnetica solare dalla luce bianca”, quella che oggi definiamo comunemente “flare”o “brillamento” e alla quale siamo abituati poiché sappiamo che si manifesta di frequente, soprattutto nei periodi di massimo solare delle singole macchie. In quei casi si coglie il rilascio di raggi X ed il relativo rumore radio, entrambi registrati da appositi telescopi. All’epoca di Carrington però i telescopi non esistevano, e l’astronomo non poté far altro che disegnare le perle di colore lattiginoso che prendevano la forma di un rene sulla superficie del Sole.

Negli ultimi anni, situazioni simili a quella del 1859 si sono registrate di frequente, pur passando inosservate a chi non è del mestiere.

Louis J. Lanzerotti, membro dello staff tecnico dei Laboratori Bell e ora direttore della rivista Spazio Meteo, racconta che iniziò a interessarsi al fenomeno Carrington più di 35 anni fa, registrando varie ripetizioni del fenomeno negli anni.
Il 4 agosto 1972 un enorme bagliore solare interruppe le comunicazioni telefoniche su lunghe distanze in Illinois.
Il 13 marzo 1989 è forse la data più conosciuta, quando la forte tempesta geomagnetica sconvolse la trasmissione di energia elettrica della stazione Hydro Québec in Canada e oscurò quasi tutta la regione. 6 milioni di persone rimasero al buio per 9 ore; si registrarono sbalzi di tensione e lo scioglimento di molti trasformatori nel New Jersey.
Nel dicembre 2005 un’altra tempesta solare interruppe le comunicazioni satellitari e GPS per circa 10 minuti. Secondo Lanzerotti possono sembrare pochi, ma, dice, immaginiamo come sarebbe essere in volo in quei momenti, guidati in un atterraggio da GPS o su una nave gestita dallo stesso sistema…

Uno dei più potenti flares solari si è registrato però il 5 dicembre 2006, grazie al satellite NOAA GOES-13, che ha fornito delle immagini ai raggi X. La riacutizzazione delle particelle nell’atmosfera terrestre fu così intensa che danneggiò lo strumento che aveva scattato la foto. Nonostante ciò, i ricercatori sostengono che il brillamento al quale assistette Carrington fosse molto più forte di questo. Nel 1859 l’esplosione produsse una gigantesca nube di particelle cariche che furono scagliate direttamente verso la Terra, provocando una enorme bolla magnetica che circondò il pianeta. L’effetto di questa tempesta geomagnetica produsse campi in rapido movimento che indussero scariche di corrente attraverso le linee telegrafiche, interrompendo le comunicazioni.

Se la modesta tecnologia dell’epoca fu un bene nel limitare i danni, cosa potremmo realisticamente aspettarci da brillamenti più intensi?

Hathaway sostiene che brillamenti simili all’evento Carrington sono rari e i fatti dimostrano che in 160 anni di tempeste geomagnetiche quell’evento fu sicuramente il più potente. Altri dettagli emergono dal carotaggio artico, dove le particelle di energia devono aver lasciato il record di nitrati. Anche in questo caso sembra che il 1859 segni la portata maggiore negli ultimi 500 anni, ma questo non esclude che il fatto possa ripetersi.

Lanzerotti sostiene che le tecnologie elettroniche sono diventate sempre più sofisticate e radicate nella vita quotidiana, rendendo un’esposizione del pianeta a eventuali tempeste decisamente più vulnerabile. Proprio la capillarità delle reti – e in queste includiamo tutto, dai radar alle comunicazioni telefoniche e cellulari, ai ricevitori GPS e satellitari, potrebbe subire interferenze derivanti da disturbi solari. Gli esperti dicono che ci sarebbe realmente poco da fare per tutelare le reti in una eventuale ripetizione di un evento Carrington; unico palliativo sarebbe avere pronta una piccola “scorta” di satelliti per le comunicazioni pronta per il lancio.

La NASA, e altre agenzie spaziali nel resto del mondo, hanno messo a disposizione una quantità di veicoli spaziali che monitorano di continuo il Sole, raccogliendo dati su grandi e piccoli brillamenti che avvengono anche più volte al giorno nella fotosfera. STEREO, SOHO, ACE, Hinode sono solo alcuni di quelli presenti al momento, alla ricerca di ciò che possa scatenare le esplosioni, e che ci forniscono foto e video di grande nitidezza. Alcuni di questi video sono visibili sul sito della NOAA, al link http://sxi.ngdc.noaa.gov/sxi_greatest.html.

I brillamenti solari sono suddivisi in classi A, B, C, M o X a seconda della luminosità dei raggi rispetto alla Terra. Ciascuna delle classi è dieci volte più intensa della precedente, ma si reputa che solo quelli di classe M o X siano in grado di avere effettive conseguenze sul pianeta.

Un valore massimo fu registrato come X9 il 16 agosto 1999, a pochi giorni di distanza dall’eclissi totale di Sole dell’11 agosto. I brillamenti furono di X20 il 2 aprile del 2001 e di X45 il 4 novembre 2003. Sembra che quest’ultimo fosse il più potente mai registrato dalla strumentazione attuale.

Se guardiamo le date riferite ai fenomeni di black-out elettrico di cui sopra, non sembrano però esserci corrispondenze.

Anche se le tempeste solari sono di classe elevata, capaci di raggiungere il pianeta in pochi minuti, generalmente questo avviene nelle 24 – 36 ore successive al verificarsi dell’espulsione di massa coronale, che determina il forte impatto tra le particelle e l’atmosfera.
È stimato che un brillamento solare di classe X raggiunga il pianeta in circa 8 minuti, ma una CME impieghi anche diversi giorni. Occorrono però una serie di coincidenze perché gli effetti siano realmente “visibili” sulla Terra: una classe elevata del flare, una magnitudine intensa, una certa durata, e che il vento solare di particelle che si espandono soffi verso il pianeta, trascinando così il plasma solare verso la nostra atmosfera. In quel caso l’impatto potrebbe essere davvero devastante, soprattutto considerando che, nel nostro mondo, tutto o quasi dipende dalla rete elettrica, poggiata su dorsali di alimentazione che attraversano gli oceani e smistate da centinaia di migliaia di trasformatori.

Le particelle ad alta energia diffuse attraverso il vento solare, rilasciano radiazioni dannose per il corpo umano, in maniera simile rispetto a quelle a bassa energia, e solo l’atmosfera può fornire uno scudo adeguato. Si è più esposti durante i voli aerei ad alta quota, pur se con rischi molto bassi. Studi recenti evidenziano come fenomeni simili siano in grado di interferire con l’orientamento di molti animali, soprattutto quelli che notoriamente vivono in simbiosi o in comunità, come gli uccelli, i pesci o alcuni mammiferi. Se già i radar sono capaci di sintonizzarsi sulle stesse frequenze, immaginiamo come radiazioni così potenti possano innescare un fenomeno di disorientamento. Non a caso, nei primi giorni di marzo, in pieno brillamento solare, ha fatto il giro del mondo l’immagine della fuga in massa di delfini nelle acque della California. In aggiunta, va detto che diversi studiosi già in passato si sono concentrati sul nesso di causalità che lega un’intensa attività solare a comportamenti umani “imprevedibili”, da fenomeni di crisi epilettiche – dei veri e propri black-out del cervello – allo scatenarsi di improvvisi gesti di follia.

Sunspot 1422 - Fonte httpwww.astro-photo.nl

 

Da allora siamo arrivati al 24°, iniziato l’8 gennaio 2008, nel quale non si è registrata alcuna attività “innaturale” almeno fino al 2009. Del resto, alcuni studi del 2008 elaborati da Livingston e Penn mostravano un’attività solare in netta diminuzione. I due scienziati indicavano come il 24° ciclo avesse avuto delle formazioni con minore intensità a livello di campo magnetico; evidenza riscontrabile già dal 1998. Tale evento faceva intuire come il processo di forte attività magnetica all’interno più profondo del Sole fosse – probabilmente – stato interrotto, e come per il 2015 entrambi i ricercatori concordassero sulla sparizione quasi totale delle macchie solari nella fotosfera.

I dati mostrano come la fotosfera solare a febbraio 2012 presentasse 58 macchie, di cui una in rapida e costante crescita.
Da questa, definita Sunspot 1422, è presumibile che si inneschino eruzioni solari.

Macchie solari il 7 marzo 2012 - fonte NOAA

 

L’attività solare del marzo scorso non è passata inosservata poiché in alcune regioni della fotosfera c’erano stati diversi brillamenti di classe M, degenerati nello scoppio della Sunspot 1429 in classe X. La sua dimensione, pari alla metà di Giove, si è manifestata particolarmente attiva ai primi di marzo, con un’ondata di radiazioni elettromagnetiche ad alta energia che hanno raggiunto la Terra in pochi minuti, causando un blackout radio su Cina, India e Australia. In quell’occasione la Delta Airlines deviò alcune rotte aeree polari, pur garantendo gli spostamenti con un leggero allungamento sui tempi di volo stabiliti. L’onda di plasma seguente arrivò sulla Terra il 7 marzo, provocando una tempesta geomagnetica di densità moderata. La NOAA, National Oceanic and Atmospheric Administration, nella persona di Joe Kunches, uno dei suo scienziati, definì quest’eruzione solare il “Super Martedì”.

Il pronostico della NASA sembra essere quello di un picco di 59 macchie tra l’inizio e la metà del 2013; quello del Servizio Ambiente Spaziale Internazionale prevede un picco di 90 macchie nel maggio 2013.

Nel 2008 la navicella THEMIS scoprì che vi sono delle zone in cui il campo magnetico terrestre è più debole del previsto. Sarebbero le stesse zone, secondo la NASA, a poter essere colpite in modo più consistente da eventuali tempeste geomagnetiche durante questo 24° ciclo solare.

Molti ricercatori sostengono che non solo la Terra, ma tutti i corpi celesti, proprio perché dotati di campo magnetico, subiscono una notevole influenza in concomitanza delle tempeste solari, che con quello vanno a interferire . Sarebbe dimostrabile proprio un rapporto diretto tra allineamenti planetari e attività solare.

Uno degli studi più recenti è stato compiuto da Patrick Geryl nel suo articolo Solar Superstorms and Planetary Alignments, volto a dimostrare come i principi cardine delle tempeste solari siano basati sulla posizione in congiunzione o in opposizione al Sole da parte di due pianeti eliocentrici.
Dalla disposizione di alcuni corpi celesti e dalle loro combinazioni in un certo periodo, ripetibile ciclicamente, deriverebbero quindi brillamenti solari di una certa intensità e conseguenti tempeste geomagnetiche.Secondo alcuni ricercatori la prossima e paventata inversione del poli terrestri sarebbe attribuibile proprio al ciclo armonico dei campi magnetici del Sole. L’inversione della polarità potrebbe allora esser calcolata proprio sulla base della teoria del ciclo delle macchie solari e quella del campo magnetico. Ipotesi, queste, che tanto per i Maya quanto per gli Egizi, erano vere e proprie convinzioni, ma che, a tali distanze e senza evidenti prove “scientifiche”, rischiano di assumere, oggi, solo il sapore di una inquietante leggenda.

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