Le mummie di gatti non sono di certo una novità: questi felini erano considerati animali sacri e si crede che i primi gatti, evoluzionisticamente parlando, siano nati proprio nell’area della Mezzaluna Fertile circa 10.000 anni fa quando le prime popolazioni egizie cominciarono a vivere a stretto contatto e poi ad addomesticare il gatto selvatico africano (Felis silvestris lybica).
Questi animali erano così importanti che nell’Antico Egitto venivano mummificati e collocati di fianco alle mummie e ai corpi dei loro padroni. Più spesso venivano mummificati per fare offerte agli dei.
I ricercatori però non hanno ben chiare le motivazioni legate alle particolari modalità di conservazione di questo ritrovamento e cosa esso voglia dire: la mummia del gatto conservata nel museo francese contiene infatti i resti di altri tre gatti. I ricercatori si sono accorti di questa strana presenza senza aprire la mummia: hanno utilizzato una tecnica di tomografia computerizzata, una sorta di raggi X, per capire cosa c’era all’interno della mummia del gatto e hanno ricostruito digitalmente in 3D il contenuto.
Tra le altre cose strane trovate in questa mummia di gatto c’è la presenza di una palla di stoffa all’interno della testa: quest’ultima manca del cranio così come il corpo sembra mancare delle vertebre e delle costole.
All’interno del corpo sono presenti cinque ossa di zampe posteriori di tre gatti diversi. Queste ossa sono bucherellate perché mangiucchiate nel corso dei millenni da orde di insetti di ogni tipo, come spiega Théophane Nicolas, ricercatore dell’Istituto nazionale di ricerca archeologica preventiva (Inrap) che ha partecipato agli studi e che ha fatto alcune dichiarazioni a Live Science.
Secondo alcuni ricercatori il motivo legato alla presenza dei resti di gatti all’interno della mummia del gatto può essere spiegato a quelle che possono essere considerate come vere e proprie “truffe” perpetrate all’epoca da chi creava le mummie.E così da animali venerati e adorati, si passa a vera “industria” di mummificazione di animali che produsse “più di 70 milioni” di pezzi. I gatti in particolare erano mummificati per essere sepolti assieme ai loro padroni ma anche per offerte votive a divinità come la dea Bastet, raffigurata con le sembianze di gatta. Altri dei con sembianze animali molto noti e “sfruttati” da questa protoindustria della mummificazione sono il toro-Apis, il falco, riconducibile sia a Horus che a Ra, la femmina del cobra-Wadjet, la mucca-Hathor, il babbuino-Thot e poi cani, coccodrilli, pesci e scarabei e altri ancora. Sottolineando che non si tratta di un gioco di parole intenzionale, l’università di Aberdeen informa che la sua mummia di gatto è stata passata anche attraverso un “CAT scanner” per appurare cosa contenesse sotto le bende: lo scheletro all’interno è “molto più piccolo” di quanto lascia supporre l’involucro che, secondo Neil Curtis, capo del Museo dell’ateneo scozzese, serviva a guadagnare di più vendendo un gatto votivo “grosso”. Sono passati seimila anni ma in certe cose l’industria non è cambiata poi molto…
In pochi conoscono oltre all' homo sapiens, al neanderthal, un' altra specie: la denisova; si possono considerare i nostri “cugini” asiatici. I resti fossili sono stati scoperti in una caverna siberiana dei monti Altaj, in Siberia.
La posizione di questo ominide nel grande albero dell’evoluzione umana è da collocarsi su un ramo parallelo a quello dell’uomo di Neanderthal e dell’Homo sapiens. Le tre specie si sono evolute circa 600.000 anni fa da un medesimo antenato, l’Homo heidelbergensis.
Nella suggestiva caverna siberiana, fu scoperto nel 2000 un semplice molare. Un dente che, com’è accaduto spesso nella storia della paleontologia, ha rivoluzionato in un attimo il nostro albero genealogico. Poi, nel 2008, un dito. Veniva così alla luce la remota esistenza di un nuovo parente che, a giudicare dai reperti, doveva essere estremamente robusto, forse la specie più grande in assoluto. Il suo genoma ha inoltre rivelato l’ibridazione del Denisovacon il Sapiens nella Melanesia oppure nel Continente Asiatico.
Ma non solo questo. Nella grotta furono trovati anche degli oggetti, tra cui i frammenti di un bracciale di clorite. Inizialmente gli esperti preferirono non esprimersi sull’appartenenza del gioiello preistorico alla specie di Denisova. Bisognava prima accertare che non si trattasse di un oggetto risalente ad altra epoca meno remota e finito in quel sito in seguito all’azione di animali selvatici. Oggi gli archeologi russi considerano il bracciale un prodotto dell’uomo di Denisova, poiché è stato trovato in uno strato incontaminato da interferenze di periodi più recenti. Strato che è stato sottoposto ad analisi isotopiche dell’ossigeno. Forse il misterioso gioiello apparteneva alla giovane donna, cui venne attribuito il dito scoperto nel 2008?
A prescindere dalla classica bellezza dell’oggetto, il bracciale di Denisova è particolarmente intrigante perché fabbricato con una tecnica molto sofisticata per l’epoca. Un oggetto ornamentale estremamente moderno che, per la tecnica impiegata dall’artigiano, presenta grandi somiglianze con gioielli del Neolitico. Il materiale usato è verde clorite. Ecco una descrizione del paleontologo russo dottor Derevyanko:
“Sono stati trovati due frammenti di un bracciale largo 2,7 cm e spesso 0,9 cm. Il diametro doveva essere di 7 cm. Accanto a uno dei punti di rottura è stato praticato un foro di 0,8 cm di diametro.”
E proprio questo foro suscita grandi interrogativi, perché la tecnica impiegata per produrlo implicherebbe una velocità di rotazione abbastanza elevata con fluttuazione minima. Ci si chiede quindi come l’artigiano della specie di Denisova fosse in grado di produrre, 60.000 anni fa, un foro così perfetto e tipico per epoche più “recenti”. Derevyanko osserva ancora:
“L’antico artigiano era esperto di tecniche che prima non erano considerate caratteristiche del Paleolitico, come praticare un foro tramite un utensile di tipo raspa, molando e lucidando per mezzo di pelli con diversi gradi di concia.”
La superficie del bracciale, che si presenta danneggiata, reca delle tracce di contatto con un materiale più morbido e si presume che l’oggetto ornamentale originariamente fosse abbellito da ulteriori orpelli, forse una striscia di pelle con un pendente abbastanza pesante. Altre tracce indicano che il gioiello fu portato al braccio destro.
Un altro indizio estremamente interessante è che la clorite impiegata nella fabbricazione del bracciale preistorico veniva da lontano. Nelle vicinanze della caverna non vi sono, infatti, cave di clorite. Le più vicine sono situate a 200 chilometri di distanza. Abbiamo dunque a che fare con un materiale prezioso, difficile da reperire. Ciò dimostra che l’uomo di Denisova era ben cosciente del valore e della qualità dei materiali da lui usati ed era disposto a superare anche grandi distanze per venirne in possesso. Altra possibilità suggerita da questo dato di fatto è una sorta di attività commerciale in embrione, praticata già 60.000 anni fa.
Il paleontologo Michail Shunkov, operante nel team russo del 2008, sostiene che l’uomo di Denisova era più evoluto sia dell’Homo sapiens che dell’uomo di Neanderthal. Un’affermazione provocatoria, eppure da prendere con la dovuta considerazione. Nello stesso strato in cui fu portato alla luce un osso di Denisova c’erano infatti altri oggetti che, fino a quel momento, erano stati attribuiti esclusivamente alla creatività del Sapiens. Oggetti ornamentali e dal valore simbolico, evidenzia Shunkov, come il bracciale di clorite di cui sopra e un anello ricavato dal marmo. La bellezza dell’arte non sarebbe stata scoperta dal Sapiens, ma dal cugino asiatico: l’uomo di Denisova.
Ciò dimostra quanto poco ancora sappiamo di quei tempi perduti nelle nebbie del passato, la grande carenza di informazioni sui nostri progenitori. Non si tratta, qui, di postulare quale degli ominidi a noi noti fosse il più abile oppure quello artisticamente più dotato. Molto più interessante è invece la domanda cruciale sul modus vivendi di quelle specie. Com’era il loro mondo? Qual era la loro filosofia di vita?
Fino a che punto questi ominidi, solitamente bistrattati a favore dell’Homo sapiens, erano veramente “primitivi” nel senso negativo del termine? E fino a che punto, invece, fruivano già di cultura e tradizioni proprie che oggi sfuggono a noi, abituati a valutare il grado del progresso in primis dal punto di vista tecnico e dello sviluppo della scrittura? Il fatto che gli abitanti di Oceania e Asia orientale abbiano ereditato dall'Homo di Denisova frammenti di DNA diversi, indica che ci sono stati due diversi incroci. Le differenze del genoma papuano dell'Homo di Denisova sono particolarmente evidenti nei giapponesi, così come nei rappresentanti dell'etnia Han in Cina.
E poi un’ultima considerazione. Se l’uomo di Denisova siberiano, 60.000 anni fa, era in grado di fabbricare gioielli raffinati per abbellire il proprio corpo, 50.000 anni fa l’uomo di Neanderthal sloveno fabbricò un flauto (flauto di Divije Babe) che produceva misteriose melodie. Forse musica sacra. E il bracciale di Denisova aveva anch’esso una funzione sacra, oltre a quella ornamentale? Non si può escludere. Attualmente l’eccezionale reperto di clorite verde è conservato al Museo di Storia e Cultura dei Popoli Siberiani, a Novosibirsk, e viene considerato il più antico bracciale di pietra al mondo.
Fonte: Yuri Leveratto * |
Sebbene i ricercatori avessero già intuito l’esistenza di un percorso rettilineo che colleghi Stonehenge al fiume Avon, finora non era stato possibile individuare con chiarezza dove potesse trovarsi questo lungo viale.
L’occasione è stata fornita da alcuni lavori stradali eseguiti presso il sito, i quali hanno rivelato con chiarezza due lunghi solchi impressi nel terreno immediatamente vicini al sito megalitico.
Il principio del viale si trova vicino alla “Pietra del Tallone”, a circa 24 metri dall’ingresso di Stonehenge. I due solchi rappresentano i lati del viale, un lungo tratto lineare a nordest del sito. Le due formazioni sono state recise dal sito secoli fa, a causa della costruzione della strada A344 che costeggia il sito.
“La parte del viale che si collega al sito è stata tagliata per realizzare la strada, distruggendolo per sempre. Tuttavia, eravamo fiduciosi che le due formazioni sarebbero sopravvissute al di sotto di essa”, spiega Haether Sebire dell’English Heritage su Culture24.
Il team guidato da Sebire sta attualmente collaborando con l’amministrazione per eliminare la strada, come parte di un piano per valorizzare ulteriormente il sito archeologico. “E’ davvero eccitante trovare un pezzo di prova fisica che rende ufficiale il collegamento che stavamo cercando”, continua Sebire.
Il sentiero è chiaramente visibile dalle foto aeree, ma difficile da individuare a terra. Già dall’estate prossima, il pezzo mancante del viale dovrebbe essere visibile, anche se sarà coperto dall’erba.
“Si tratta di un’occasione unica per indagare come si presenta il viale sotto il vecchio manto stradale”, ha detto il dottor Nick Snashall, archeologo del National Trust per il Patrimonio Mondiale. “Per la prima volta possiamo affermare con certezza che Stonehenge e il suo viale erano un tempo legati, e a breve sarà di nuovo così”.
Le buone condizioni climatiche hanno permesso ai ricercatori di fare ulteriori scoperte nel cerchio di pietre esterno: nel mese di luglio, due membri del personale hanno individuato alcuni fori nella zona sudest del sito, che potrebbero aver ospitato le pietre 17, 18 e 19.
“C’è ancora discussione tra gli archeologi sul fatto che Stonehenge fosse un cerchio di pietre completo o incompleto”, ha spiegato la storica Susan Greaney. “La scoperta di questi fori, che sembrano aver ospitato delle pietre, rafforza l’idea che il sito fosse un cerchio completo, anche se non perfettamente uniforme”.
Stonehenge è uno dei luoghi più enigmatici e misteriosi che popolano il nostro pianeta. Sono ancora molti i segreti che l’antico sito archeologico custodisce gelosamente, soprattutto sulla sua creazione e il suo utilizzo.
Chi l’ha costruito? Qual era lo scopo della sua creazione? E cosa ha spinto i suoi costruttori a trasportare dei macigni colossali su una distanza enorme e posizionarli in quel modo?
Sono state avanzate numerose e diverse teorie su chi e perchè abbia voluto costruire Stonehenge, dagli uomini del neolitico, che hanno voluto erigere un luogo di culto con strumenti di lavoro estremamente primitivi, agli antichi astronauti provenienti dal cosmo intenzionati a costruire qualcosa di più complesso e misterioso. Purtroppo, nessun documento scritto è mai stato trovato che aiutasse a diradare la nebbia che avvolge il mistero di Stonehenge.
Gli unici riferimenti letterari sono contenuti nelle storie tramandate dal folklore e, naturalmente, nella leggenda di Re Artù e dei 12 cavalieri della tavola rotonda secondo la quale il complesso di Stonehenge sarebbe stato magicamente edificato da mago Merlino per onorare i re di Britannia o i cavalieri della Tavola Rotonda caduti, prelevandolo, sempre con la magia, dall’Irlanda, dove era stato precedentemente costruito sul Monte Killaraus da Giganti che portarono le pietre dall’Africa.
Le gigantesche pietre di arenaria servite per la costruzione del cerchio più esterno del sito provengono da Marlborough Downs, 20 km a nord di Stonehenge. La più grande di queste misura 2,5 metri di lunghezza, 1,5 metri di larghezza e pesa, all’incirca, 25 tonnellate.
I costruttori non solo sono stati capaci di sollevare queste immani rocce, ma anche di creare un cerchio perfetto. Invece, i megaliti serviti per la formazione del cerchio interno provengono dai Monti Preseli nel Pembrokeshire, Galles occidentale, a 230 chilometri da Stonehenge. Sono state utilizzate sessanta pietre dal peso di 4 tonnellate ciascuno.
Secondo alcuni archeologi, la costruzione del monumento ha richiesto un periodo tra i 300 e i 500 anni. Altri credono, invece, che si siano voluti addirittura 1500 anni.
Il divario così estremo tra le teorie su Stonehenge la dice lunga sullo stato della comprensione della scienza sul questo sito così enigmatico, il quale non smette di suscitare meraviglia e stupore per la sua complessità e l’aura mistica che lo circonda.
Le pietre scelte per costruire i cerchi concentrici contengono una grande quantità di materiale cristallino che pare sia in grado di attrarre e condurre l’elettromagnetismo del terreno (aspetto che ricorda uno degli esperimenti più intriganti di Nikola Tesla). Inoltre, Stonehenge è stata costruita su una delle Ley Line più importanti che percorrono la Gran Bretagna.
Le “Ley lines” (linee di prateria), sono vere e proprie linee rette, larghe circa due metri ed equidistanti tra di loro, che percorrerebbero l’intera superficie terrestre, incrociandosi tra loro in modo da formare una rete. Le ha teorizzate l’inglese Alfred Watkins alla fine del secolo scorso. Nei punti in cui le Ley Lines si incrociano, sorgerebbero antichi templi e monumenti funebri pagani.
Sotto di esse scorrerebbero spesso acque sotterranee o sarebbero presenti filoni di minerali metallici. I luoghi energeticamente speciali si trovano, in molti casi, lungo queste linee.
Secondo alcuni studiosi russi, le Ley Lines costituirebbero una griglia di energia sulla quale si fonderebbe la struttura stessa della Terra. Sul sito di Stonehenge convergono ben quattordici Ley Line, cosicché da trovarsi in un punto importante della griglia energetica planetaria.
Anche i Monti Preseli, dove sono state ricavate le rocce, sono attraversate da Ley Lines. Tracce molti antiche, menhir e sepolcri adornano le colline in cui brillano abbindandi giacimenti di cristalli di quarzo.
Ancora oggi, le pietre dai Monti Preseli sono considerate in possesso di qualità magiche di guarigione da alcuni cultori delle antiche tradizioni celtiche. Esse sono calde al tatto, e quando si spaccano, il loro interno si presenta scuro e lucido, come un cielo notturno scintillante di stelle.
Il che spinge a porsi una domanda fondamentale: come avevano fatto gli antichi a capire questo? Cosa significava per loro? Soprattutto, chi erano costoro? Chiunque abbia costruito Stonehenge, certamente sapeva della convergenza energetica del luogo.
Si ipotizza che lo schema originario di Stonehenge avesse la forma di un “calice” (o calderone), in grado di convogliare una grande quantità di energia geomagnetica. E’ un caso che proprio qui, nel Wiltshire, si presenti il famoso fenomeno dei Crop Circles? E’ solo un caso o c’è una connessione?
Insomma, cos’era Stonehenge? Un enorme osservatorio astronomico? Un luogo ci culto? Un luogo di guarigione? Ci troviamo davanti ad un immenso monumento a forma di cerchio costruito direttamente su un punto della griglia planetaria, in uno dei luoghi dove si manifesta il misterioso fenomeno dei Crop Circles, circondato da un’intensa attività UFO e su una della più grandi Leyline della Gran Bretagna. Convergenze abbastanza impressionanti… cosa significa tutto ciò?
Un interessante studio pubblicato sulla rivista Meteoritics and Planetary Science ha permesso di scoprire che gli egiziani utilizzavano gioielli realizzati con metallo di origine cosmica, proveniente da antichi meteoriti caduti sul nostro pianeta migliaia di anni fa.
La scoperta è stata realizzata grazie alle analisi eseguite su un campione di ferro di circa 2 centimetri, un tubicino utilizzato come decorazione per una collana, risalente a circa 5 mila anni fa.
I risultati mettono in luce come gli antichi egizi conoscessero la fusione e la lavorazione del ferro almeno mille anni prima dell’inizio della cosiddetta ‘età del ferro’, cominciata intono al 1300 a.C.
Inoltre, lo studio mette in rilievo quanto fosse importante l’universo per gli egizi e come i meteoriti avevano una funzione singolare nello sviluppo della loro religione: “Il cielo era molto importante per gli egizi”, spiega Joyce Tyldesley, egittologo dell’Università di Manchster, nonché uno degli autori dello studio, “e qualcosa che cadeva dal cielo era considerata come un dono degli dei”.
Il reperto analizzato è uno dei nove ritrovati nel 1911 in un cimitero di Gerzeh, a circa 70 chilometri a sud del Cairo. Il gioiello risale al 3300 a.C., il più antico manufatto egizi in ferro mai scoperto.
Uno studio condotto nel 1928 rilevò che il ferro nel manufatto aveva un alto contenuto di nichel (una firma nota del ferro meteoritico), suggerendo che fosse di origine cosmica. Ma nel 1980, gli studiosi sostennero che la presenza del nichel nel manufatto era frutto di una fusione accidentale, escludendo l’ipotesi extraterrestre.
Per risolvere la questione, Diane Johnson, studiosa di meteoriti presso la Open University di Milton Keynes, Inghilterra, insieme ai suoi colleghi ha studiato il reperto al microscopio elettronico e eseguito una tomografia computerizzata.
Benchè fosse stata negata ai ricercatori la possibilità di sezionare il prezioso manufatto, gli scienziati hanno trovato alcune aree sulla sua superficie che hanno permesso un’osservazione più approfondita dell’oggetto, quelle che la Johnson ha definito delle ‘piccole finestre’.
Le analisi hanno mostrato che la presenza del nichel nel manufatto arriva fino al 30%, il che suggerisce che l’oggetto proviene effettivamente da un meteorite.
A conferma del risultato, il team di scienziati ha osservato che il ferro mostra una struttura di tipo cristallino, segno distintivo di una conformazione chiamata ‘Widmanstätten’, presente solo nei meteoriti di ferro che si raffreddarono molto lentamente mentre il sistema solare si stava formando.
Usando la tomografia, i ricercatori hanno elaborato un modello tridimensionale della struttura interna del gioiello, rivelando che gli antichi egizi lo avevano realizzato martellando il frammento di ferro meteoritico fino a farlo diventare una piastra sottile, per poi piegarlo a forma di tubicino.
Un dono degli dei
La prima prova della fusione del ferro in Egitto appare nella documentazione archeologica solo nel VI secolo a.C. Solo pochissimi manufatti di ferro sono stati scoperti nella regione prima di allora e tutti provenienti da tombe di alto rango sociale, come quelle del faraone Tutankhamon.
“Il ferro era fortemente associato con la regalità e il potere”, spiega la Johnson, la quale vorrebbe ottenere il permesso di studiare altri manufatti di probabile origine meteoritica.
I manufatti realizzati con questo ‘materiale divino’ si credeva potessero garantire al defunto il passaggio privilegiato nell’aldilà. Campbell Price, curatore del Museo egizio di Manchester, il quale non ha partecipato allo studio, sottolinea che non si sa nulla di certo sulla credenze religiose degli antichi egizi prima dell’avvento della scrittura. Tuttavia, essi credevano che gli dei avessero le ossa di ferro!
Si ipotizza che i meteoriti possano aver ispirato questa convinzione e che le rocce celesti fossero i resti fisici degli dei che cadono sulla Terra. E se fossero stati proprio gli dei ad insegnare l’importanza del ferro agli egizi?
L’antica Tebe ha oggi un nome moderno,Luxor.
E qui ci sono due statue,chiamate impropriamente colossi di Memnone,che per secoli hanno affascinato i visitatori.
A loro è legata una storia dal sapore leggendario,ma che viceversa è ben documentata storicamente.
Amenofis III,nel XV secolo AC,costruì un tempio,oggi praticamente scomparso,e all’ingresso pose le due statue,con ai piedi due statue più piccole,raffiguranti la moglie Ty e la madre.
Le due statue più grandi,raffiguranti lo stesso faraone,avevano lo sguardo rivolto verso il sole nascente,ed erano composte di quarzite,minerale proveniente dalla piana di Giza.
Il tempio attirava folle di fedeli,e con il passare dei secoli,e il successivo deterioramento delle stesse,avvenne un fenomeno singolare.
La mattina,al sorgere del sole,dalle statue si diffondeva un suono armonico,melodioso.
Fu così che i primi visitatori greci ribattezzarono le statue con il nome di Memnone,mitologico figlio di Titone e della dea Eos,la dea dell’alba.
Quando Memnone morì,nell’assedio di Troia,Eos,inconsolabile,pianse suo figlio ogni mattina,al sorgere del sole.
Così,i visitatori greci,ribattezzarono in suo nome le due statue colossali,ritenendo che il suono venisse provocato da Eos che piangeva suo figlio.
La fama del fenomeno crebbe a dismisura,e furono tantissimi i visitatori che poterono apprezzarlo.
Tra loro ci fu l’imperatore romano Settimio Severo,che,stupefatto,cercò di capire l’origine del fenomeno.
Diede ordine che le statue venissero riparate,con conseguenze disastrose:del fenomeno non rimase più traccia.
Oggi sappiamo che la quarzite,con la rugiada del mattino,riscaldata,vibra ed emette suoni.
Ecco come dovevano apparire, agli occhi degli antichi egizi, i colossi di Amenhotep III. Le gigantesche statue del re si trovavano davanti al suo tempio funerario oggi distrutto, uno dei più maestosi di Tebe occidentale. La sua rovina si deve al tempo e all'uomo che ne ha utilizzato i materiali per costruire i villaggi dei dintorni. Ma piace pensare che una mamma,anticamente, abbia pianto per suo figlio,levando il suo lamento ogni giorno, al sorgere del sole.
Nascoste tra le cime dell’Himalaya, esiste un luogo con circa 10 mila grotte artificiali scavate nella roccia viva a circa 60 metri d’altezza, in una gola così grande da superare di gran lunga il Gran Canyon.
L’impressionante numero di grotte si trova nel nord del Nepal, nel Distretto di Mustang, e rappresenta uno dei più grandi misteri archeologici del mondo.
Alcune di esse sono uniche, con un solo ingresso aperto su un vasto fronte di rocce frastagliate. Altre, invece, sono state realizzate in gruppo, una sull’altra, presentando accatastamenti verticali anche su nove livelli.
Gli archeologici non sanno chi le abbia costruite, né quale fosse la loro funzione. Inoltre, non si riesce a comprendere come facessero le persone a salire verso queste cavità realizzate a diversi metri dal suolo.
A metà degli anni ’90, archeologi provenienti dal Nepal e dall’Università di Colonia hanno cominciato ad esplorare l’interno delle grotte, trovando una dozzina di corpi umani, tutti antichi di almeno 2 mila anni.
Da allora, gruppi di ricercatori hanno continuato ad indagare le ‘Grotte di Mustang’. Coloro che hanno avuto la fortuna di visitare le misteriose grotte hanno raccontato di aver avuto l’impressione di trovarsi di fronte ad un gigantesco castello di sabbia.
Uno di questi è Cory Richards, un fotografo d’avventura, che insieme all’archeologo Mark Aldenderfer, allo scalatore Pete Athans e ad una squadra di esploratori, si è recato sul sito alla ricerca di reliquie nascoste e grotte inesplorate. “Onestamente, quando sono arrivato mi sono reso conto che il sito è più grande di qualsiasi cosa abbia mai potuto immaginare”, racconta Richards.
In alcune cavità sono stati rinvenuti diversi murales e manoscritti che illustrano la storia buddista. I ricercatori pensano che l’utilizzo delle grotte di Mustang sia divisibile in almeno tre periodi.
Le grotte venivano utilizzate già nel 1000 a.C. come camere funerari. Ma non si esclude che le cavità siano state utilizzate successivamente dalle antiche popolazioni locali come rifugio in caso di attacco.
La maggior parte delle grotte, infatti, risulta essere vuota, anche se in alcune di esse sono stati trovati segni di vita domestica: focolari, attrezzi e contenitori.
Richards è entusiasta dell’esperienza vissuta. Come egli stesso afferma, cercherà di trasmettere la bellezza delle Grotte di Mustang con la sua attività di fotografo: “Essenzialmente, alla fine di questa esperienza, ciò che per me è stato illuminante è il connubio tra scienza, esplorazione e cultura”, conclude il foto-esploratore.
http://ilnavigatorecurioso.myblog.it/2013/09/01/il-navigatore-curioso-cambia-indirizzo-web-5657743/
Veduta della città Maya di Palenque
E’ il sogno di qualsiasi esploratore, di qualsiasi archeologo quello di imbattersi in un’antica città, priva di vita da secoli, ma conservata tutto sommato bene; una città che presenti ancora iscrizioni e monumenti, che racconti in qualche modo la vita di coloro che la hanno abitata, e che possibilmente restituisca qualcosa che possa servire per capirne la cultura, le dinamiche di vita sociale, religiosa e politica, e perchè no, che dia modo di trovare l’immancabile tesoro, che sia sotto forma di gioielli, di oro o di qualsiasi cosa di prezioso.
Palenque ha esaudito tutti questi desideri, rivelando, sopratutto nel corso della seconda metà dello scorso secolo, una storia che ci ha permesso di conoscere meglio gli antichi abitanti che la popolavano, su una estensione di circa 15 km, e che la abbandonarono inspiegabilmente nel pieno del suo fuglore.
Alberto Riuz Lhuillier, l’archeologo che scoprì la tomba di Pacal il grande
Situata a 3000 mt di altitudine, nello stato messicano del Chiapas, sull’estremo lembo del confine messicano non lontano dai confini con il Guatemala, la città stato è rimasta quasi invisibile agli occhi umani per secoli, protetta dall’onnipresente giungla e da una nebbia provocata dallo scorrere del fiume Usumacinta, che provoca uno scambio termico con l’aria; già abitata nel corso del I secolo AC, Palenque ha visto crescere il suo prestigio lentamente ma con costanza, fino al massimo splendore che coincide con il regno di Kin Pacal detto il grande, che regnò dal 615 al 683 DC, data della sua morte.
Pacal portò lustro e splendore nella città stato, edificando templi e inaugurando una stagione di prosperità senza precedenti: alla sua morte lo splendore e la magnificenza della città stato diminuirono progressivamente, fino al X secolo, quando come già detto all’inizio la città venne progressivamente abbandonata, fino a diventare deserta del tutto.
Questo è uno degli enigmi che da sempre fanno ammattire gli studiosi; cosa può aver spinto la pololazione locale ad abbandonare un territorio così avanzato dal punto di vista della civiltà, una città ricca di templi, costruzioni e abitazioni?
Pacal il grande
Un catastrofe naturale è poco probabile, visto che avrebbe dovuto colpire non solo gli abitanti, ma anche i manufatti; forse vi fu un’emigrazione di massa di altri popoli che cacciarono i residenti, ma anche in questo caso vien da chiedersi dove siano finiti poi i nuovi abitanti, e sopratutto come abbiano fatto a conquistare la città stato senza intaccarne i monumenti.
L’ipotesi più probabile è un’emigrazione di massa dovuta all’improvviso inaridimento del suolo, che costrinse i Maya a lasciare la zona alla ricerca di un territorio fertile.
Ma ovviamente è solo una supposizione, perchè gli stessi Maya, se lasciarono scritto qualcosa sugli avvenimenti, videro tutte le loro testimonianze scritte distrutte dalla furia iconoclasta degli spagnoli, con i tristemente famosi auto da fè che bruciarono tutta la cultura scritta Maya salvo sporadiche eccezioni.
La stupenda maschera funeraria di Pacal
Comunque sia andata, Palenque diventò una ghost town, cosa dimostrata dall’arrivo degli spagnoli nel 1519.
I conquistadores, affamati di oro e pietre preziose, giunsero nella città con un piccolo corpo di spedizione guidato da Padre Pedro Lorenzo de la Nada; fu lui a dare il nome di Palenque alla città, traducendo male il nome Maya della città, ricordata dai discendenti del grande popolo che abitavano quella zona nel 1561 come la “terra con forti case, delle case robuste”
Pedro Lorenzo de la Nada la chiamò fortezza, Palenque in spagnolo e da quel momento la città stato prese la denominazione che conosciamo ancor oggi; il religioso si integrò bene con la popolazione locale, riuscì a creare una comunità di indigeni locali e li convinse a ripopolare la città.
Lasciò i suoi protetti per tornare in Spagna, dove si preoccupò di costituire uno stato giuridico per la sua gente, portando con se tre campane da mettere nelle chiese che aveva costruito, una delle quali soltanto è sopravissuta fino ai giorni nostri.
Glifi a Palenque
Palenque ritornò nell’oscurità della storia, prima di essere nuovamente scoperta da Stephens e Catherwood, i due archeologi e viaggiatori che girarono in lungo e in largo il Messico, e che contribuirono in maniera determinante alla riscoperta di Chichen Itza; ma ancora una volta la città stato scomparve dalle cronache, prima di essere scoperta nuovamente, e questa volta in maniera definitiva, nel 1930, quando un gruppo di archeologi capitanati da M. A. Fernandez in collaborazione con F. Blom e Ruz Lhuillier intraprese una campagna di scavi che riportò alla luce tutti i templi più importanti della città, in particolare il Tempio delle iscrizioni.
Ed è qui che quasi vent’anni dopo avvenne un ritrovamento eccezionale, paragonabile per importanza a quello della tomba di Tutankamen, che, come vedremo, porterà a parlare dell “tomba del faraone Maya”
Nel 1949 Alberto Ruz Lhuillier stava svolgendo una campagna di scavi sul territorio di Palenque; un giorno, mentre studiava con attenzione i petroglifi sul Tempio delle iscrizioni, che recavano 625 glifi ispirati alla storia del più grande dei capi di Palenque, Pacal, vide un passaggio segreto nel suolo, ostruito da macerie.
Con il fiuto che accompagna sempre l’archeologo di razza, Lhuillier intuì che quel passaggio doveva portare a qualche cosa di importante.
L’ingresso della tomba di Pacal
Iscrizioni sulle pareti della tomba
L’intuizione si trasformò in certezza quando l’archeologo vide che sotto le macerie c’erano delle scale; ma dovette attendere tre anni, prima di vedere la sua curiosità appagata; il tempo necessario a rimuovere le oltre 300 tonnellate di macerie che ostruivano il percorso.
Ma fu un’attesa premiata con una scoperta che rivoluzionò le conoscenze ul mondo Maya; perchè al termine di quella scalinata c’era una sala a volta, con al centro un sarcofago decorato, chiuso da una pesante lastra (5 tonnellate); sui lati della stanza, sulle pareti, erano raffigurati 9 dignitari; la stanza stessa misurava 9 mt di lunghezza, 4 di larghezza e 7 di altezza.
Quando venne rimosso il pesante coperchio, all’interno del sarcofago si rinvenne il corpo di un uomo, sul cui volto c’era una splendida maschera di giada.
La lastra tombale che ricopriva il sarcofago di Pacal
La stessa lastra vista nell’angolazione preferita dai cultori dell’ipotesi aliena
Era il corpo di Pacal il grande, sepolto con tutti gli onori, come il faraone egizio Tutankamen, come lui con il volto coperto da una maschera di straordinaria bellezza; come Carter rispose sinteticamente a Lord Carnavon “Vedo cose meravigliose”, così Lhuillier rispose sinteticamente a chi gli chiedeva dell’emozione provata nel momento in cui venne sollevata la pesante lastra tombale di Pacal.
“La prima impressione fu quella di contemplare un mosaico verde, rosso e bianco, ma poi il mosaico si scompose in dettagli e vidi ornamenti di verde giada, ossa e denti dipinti di rosso e frammenti di una maschera“
Veniva quindi smentita la teoria che voleva le piramidi utilizzate solo a fini religiosi o politici; la cripta contenente il sarcofago di Pacal stava a dimostrare clamorosamente il contrario.
La eco della scoperta mise in subbuglio il mondo impolverato degli archeologi, sempre poco disponibili a rivedere le loro teorie; ma buona parte dello stesso mondo si schierò a difesa dell’autenticità del corpo di Pacal quando alcuni misero indiscussione l’identità del corpo ritrovato.
La principale obiezione riguardò lo stato di corrosione dei denti, che non corrispondevano ad un uomo di ottantanni; tuttavia non va dimenticato che Pacal non era un uomo qualsiasi del suo popolo.
Era un sovrano con dignità pari a quella di un dio, e con molta probabilità non doveva certo nutrirsi di mais o carne dura.
Una visione in bianco e nero che permette di apprezzare i dettagli
Ma la polemica più grande, quella che ebbe più vasta eco, riguarda la strana decorazione della lastra tombale del “faraone di Palenque“; la raffigurazione di Pacal, che ascende dal mondo terreno per avviarsi a diventare un dio venne scambiata per un astronauta che è a cavalcioni su un veicolo spaziale.
Uno dei primi a parlare dello “sconvolgente rinvenimento” fu lo scrittore Erich von Däniken, una specie di scienziato della domenica specializzato nell’elaborazione di fantasiose teorie che spiegano, attraverso l’intervento alieno, tutte quelle cose che richiedono conoscenze approfondite o studi completi.
L’ameno scrittore svizzero sostiene da tempo che sono stati gli alieni a contribuire all’edificazione delle piramidi e della sfinge, che sempre gli alieni sono intervenuti massicciamente per influenzare le civiltà Maya, Incas, Azteca, quella dell’isola di Pasqua e via dicendo, arrivando anche a vedere gli alieni dietro le apparizioni mariane di Lourdes e Fatima.
Accanto a lui va citato l’italiano Kolosimo, scomparso da tempo; lo stesso fervore “interventista alieno” pervade gli scritti di Kolosimo, che sposò la tesi stravagante di Von Daniken.
La probabile spiegazione della lastra tombale:
La parte inferiore, Il mostro della terra
La parte centrale, L’albero della vita (la vita terrestre)
La parte superiore, Il Queatzcoatl, il serpente piumato (il passaggio allo stato di Dio)
In realtà guardando la lastra funeraria di Pacal, si scorgono elementi classici della religione Maya; c’è il mostro della terra, una pianta di mais (alimento fondamentale dei Maya), l’uccello piumato, il queatzl, comune amche agli Inca, che simboleggia l’essenza stessa della vita.
Ovviamente i cultori del mistero si sono affannati a spiegare con l’intervento alieno la non comune raffigurazione tombale.
Dimenticando, per esempio, che Pacal è raffigurato con addosso solo il perizoma, abbigliamento con il quale, fosse stato alla guida di un veicolo spaziale, avrebbe potuto al massimo alzarsi dal suolo per pochi metri.
Non solo; la raffigurazione è limitata solo alla lastra tombale, e se fosse stato vero un incontro ravvicinato tra i Maya e presunti alieni, sarebbe rimasta qualche traccia sulle pareti della tomba, sotto forma di documentazione, vista la rilevanza della cosa.
Del resto nel Tempio della croce, per esempio, elementi religiosi presenti sulla lastra tombale di Pacal sono raffigurati su alcune pareti.
Particolare del Tempio dei teschi
Tornando a Palenque, il sito presenta numerosi monumenti degni di grande attenzione.
In primis va citato il gruppo costituito da tre templi ,il Tempio della Croce, quello della Croce Fogliata e il Tempio del Sole, edificati sotto il governo del figlio del grande Pacal, quello di Chan Bahlum (o Chan Balám – Serpente Giaguaro), salito al potere lo stesso anno della morte del padre, il 683.
Siamo nel periodo di massimo fulgore dell’architettura Maya, e i risultati sono visibili; il Tempio della Croce presenta la complessa struttura delle consegne del potere da parte di pacal al figlio, simboleggiata dall’albero della vita, che affonda le radici profondamente nel terreno, nel regno del sotto mondo, che presenta il tronco in superficie a simboleggiare la vita terrena e infine le foglie e i rami che simboleggiano il cielo e quindi la natura divina del re.
Altare sacrificale davanti al Tempio delle iscrizioni
Nel Tempio della Croce Fogliata sono presenti le stesse allegorie, impreziosite dalla rpesenza del mais, fonte di vita come l’acqua;i ll Tempio del Sole si distingue invece per le allegorie dedicate alla guerra, vista la presenza di rilievi raffiguranti giaguari.
Anche a Palenque è presente il tradizionale campo per il gioco della palla, la cui complessa ritualità è ancora oggi fonte di studio (per la descrizione del rituale sportivo/religioso simboleggiato dalle strutture vedere l’articolo su questo blog dedicato a Chichen Itzà).
Il Tempio del sole
La parte centrale di Palenque è occupata dal Palacio, un complesso di più strutture che contiene splendide raffigurazioni di battaglie, ritratti di sovrani precedenti, e che venne edificato in più di cento anni, aggiungendo alla struttura originaria altri edifici dedicati probabilmente non solo all’esaltazione del potere, ma che fungevano da centro amministrativo e di giustizia.
La regina Zak Kuk, madre di Pacal, fece decorare l’interno degli edifici anche con simboli del calendario; particolarmente importanti sono i glifi studiati da Heinrich Berlin, che rivelarono come in una specie di Stele di Rosetta i nomi dei sovrani che si erano alternati nella guida della città.
Una delle sorprese che attendevano gli archeologi era rappresentata dalle vistose colorazioni degli edifici, adesso perdute, ma presenti ancora in tracce sulle costruzioni; abbondavano i colori come il giallo, il verde e il blu, oltre al rosso mattone che decorava gli esterni degli edifici.
Una raffigurazione ottocentesca
Una raffigurazione ottocentesca del Tempio del sole
Palenque deve davvero molto a Alberto Ruz Lhuillier; l’uomo si dedicò anima e corpo al restauro e alla conservazione del sito, tanto che dopo la sua morte venne sepolto all’interno della città, di fronte al Tempio delle iscrizioni. Fu lui a far lievitare l’interesse per il sito archeologico, grazie alla citata scoperta della tomba di Pacal.
Oggi il sito è meta di un incessante pellegrinaggio di turisti, attirati dal fascino misterioso della città Maya, conservatasi splendidamente nonostante le ingiurie del tempo.
Mappa del sito archeologico
Sono presenti sul sito anche equipe archeologiche, alla ricerca di ulteriori elementi di informazione sui Maya; l’epoca delle scoperte archeologiche,a Palenque, probabilmente non è terminata.
Il sistema numerico Maya