Molte delle moderne teorie e disquisizioni esobiologiche basano le proprie argomentazioni principalmente dallo studio dei bioti terrestri. Come la vita si sia sviluppata sul nostro pianeta rimane ancora una domanda aperta, senza una risposta definitiva, ma come si sia sviluppata nel corso dei milioni di anni che ci separano da tale genesi è una domanda a cui la scienza moderna sta, lentamente, dando una risposta. Affianco alle moderne teorie sull’origine della vita, dal modello standard di Oparin e Haldane alla teoria sulla panspermia di Wickramasinghe e Hoyle, per finire al modello inorganico di Clay e Lattice, si stanno aggiungendo interessanti ipotesi di ricerca che ipotizzano come altri pianeti possano aver sviluppato quelle situazioni, simili o differenti, necessarie per lo sviluppo di strutture organiche elementari precursori possibili di altre specie extraterrestri.
Sulla Terra una delle più antiche tracce di vita rinvenute si riferisce ai microfossili rinvenuti a Warawoona e risalenti a comunità di microrganismi simili ai cianobatteri di tre miliardi e mezzo di anni. L’incertezza sulle modalità con cui si sarebbe sviluppata la vita sul nostro pianeta hanno favorito, già a partire dai primi anni ’50 del XX secolo, la formulazione di interessanti teorie e modelli sui possibili sistemi di sviluppo che altre specie microbiche avrebbero potuto seguire in altri pianeti.
Se le prime aspirazioni del progetto SETI furono ben più ampie di quanto lo siano le attuali, dal progetto OZMA si passò al CETI ove l’interlocuzione iniziale della “C” al posto della “S” si identificò con «Contact» auspicando che la rivelazione di un segnale potesse trasformarsi in un successivo contatto con altre specie extraterrestri, oggi l’utilizzo massivo di radiotelescopi ed antenne satellitari ha permesso la costruzione di un gigantesco “Echelon cosmico” in costante auscultazione di segnali artificiali. Da tali presupposti il SETI e la ricerca esobiologia in generale hanno posto le basi necessarie per una nuova “corsa allo spazio”, una ricerca tesa a scandagliare, ed eventualmente a rilevare nell’infinità del cosmo, nostri vicini e possibili nuovi interlocutori. Fin dai suoi primordi la ricerca su queste tematiche rese subito evidente la necessità di dover predisporre tale disciplina verso un cammino multidisciplinare e multi-angolare, che fosse cioè in grado di cogliere appieno le diverse tematiche e necessità che la ricerca, ed un eventuale contatto con altre civiltà, avrebbe potuto portare. Si studiarono forme di linguaggio che potessero essere comprensibili e decifrabili anche da altre civiltà non in possesso del nostro retroterra fonologico e linguistico, si pensò a tipi di comunicazioni simbolico-visive, ben note furono le targhe inserite sulle sode Voyager, come anche si pensò di codificare messaggi radio (quindi ancora durante il periodo “attivo” della ricerca, il CETI) da inviare nel cosmo per testimoniare la presenza di vita intelligente sul nostro piccolo pianeta . Le porte della nostra specie si aprirono verso un nuovo futuro ovvero verso la possibile scoperta di nuovi mondi abitati.
Ma la comunità scientifica, ieri più di oggi, si dimostrò sempre ben lontana dal poter avvalorare la fattibilità di vita nel cosmo. Il lento progresso di questo campo di studi ha permesso una maggiore presa di coscienza, l’acquisizione della consapevolezza di una non unicità del nostro pianeta. Il tutto sarebbe ben evidenziabile dal distico, oggi passato alla storia, ideato dell’astrofisico inglese Sir Martin Rees «l’assenza di prove non è prova di assenza» ad indicare come anche l’assenza di riscontri oggettivi all’ipotesi di vita su altri mondi non giustifichi l’asserzione che questa non possa, o non debba, esistere. L’approccio esopsicologico assunse così forza e vigore nella comunità scientifica dimostrando un progresso ed una evoluzione nella forma mentis accademica auspicabile quanto necessario per gli sviluppi successivi. L’esobiologia non si limitò però a semplici studi ed analisi teoretiche a tavolino ma affondò la propria speculazione nell’analisi sul campo verso la scoperta di possibili tracce. Le esplorazioni spaziali, lo studio di meteoriti e la nuova e continua comprensione delle leggi e delle strutture dell’universo permisero a questo campo di studi di espandersi fino ad assumere proporzioni inimmaginate. Grandi menti del secolo scorso furono fautori ed artefici di questa evoluzione, individui come Herman Oberth, Hans F. Ebel, Carl Sagan, Frank Drake e molti altri il cui nome oggi è scolpito nelle pagine della storia e dei testi accademici.
Non molti dedicarono però la propria attenzione verso una disciplina minore, ma non inferiore, quale quella dell’esopsicologia settore che impostò i propri ambiti di studio nel campo dell’analisi psicologica, sociologica ed antropologica sui possibili sistemi cognitivi, interattivi e di organizzazione mentale di eventuali civiltà extra-terrestri. Saranno il teologo Ferdinand Dexinger e lo psichiatra svizzero Andreas Hedri a coniare per primi il termine esopsicologia sottintendendo una disciplina che avesse come scopo l’interpretazione e la possibile comprensione della psiche e dei processi ragionativi di eventuali società aliene. A buon diritto si può identificare un forte punto di unione con questa disciplina alla più antica sociologia ed antropologia. Sarà infatti da entrambe che l’esopsicologia attingerà la propria linfa e le proprie mete per ipotizzare scenari inimmaginabili e società non ancora identificate. Si potrebbe obiettare che, a fronte di ricerche ben più impegnative e scientificamente propositive, un tale approccio potrebbe risultare del tutto privo di valore basandosi sul fatto di cercare di interpretare, o di “indovinare” come taluni sostengono, una possibile forma mentis ed una psicologia mai viste, studiate e neanche identificate. Dubbi ragionevoli che pongono però, nel caso dovessimo condividerli, un limite ed una forte pregiudizialità allo stesso approccio di ricerca del SETI.
Lavorare in un campo multidisciplinare come quelli indicati pone la necessità di vagliare ogni ipotesi, ogni ambito e ogni possibile approccio ipotizzabile necessitando quindi anche di un tipo di apporto esopsicologico alla comprensione d’insieme su altre forme di vita. Osservando come una eventuale civiltà esterna al nostro pianeta potesse apparire ai nostri occhi, morfologicamente ed antropomorficamente, ci risulterebbe difficile credere che le sue forme potrebbero essere totalmente dissimili dalla nostra. Questo perché nella nostra ipotetica scala comparativa tra specie diverse la forma antropomorfa sarebbe quella che sicuramente otterrebbe un maggior vantaggio adattativo ed evolutivo permettendo altresì una migliore e più armonica ascesa verso una possibile via al progresso e alla tecnologizzazione. Questo sempre però per quanto riguarda la “nostra” scala evolutivo-comparativa. Nulla impedisce che altre e dissimili morfologie possano aver raggiunto un livello adattativo paragonabile al nostro o superiore. Semplicemente non lo possiamo sapere. I punti deboli attuali della ricerca sociologica ed antropologica nel campo della vita nel cosmo possono essere altrettanto evidenti quanto i suoi punti di forza.
L’attuale grado di competenza di queste discipline nel campo di studi della vita terrestre è il risultato di una classificazione e di una suddivisione ufficiosa degli ambiti e del lavoro intellettuale di queste discipline. Se la sociologia sembra aver assunto un ruolo primario nello studio della civiltà urbana e tecnologizzata, l’antropologia sembra aver colmato il vuoto nello studio di società pre-urbane, non occidentali e definite primitive. Una tale suddivisione, oggi ampiamente colmata, pone però al campo esopsicologico il compito di colmare tale lacuna e di muoversi per costruire un trait d’union indispensabile per operare in questi ambiti. Entrando direttamente nella disciplina esopsicologica ci si rende subito conto di come debba essere compiuta una prima suddivisione sommaria inerente il livello di sviluppo di altre civiltà extra-planetarie. Le due vie manifeste identificano civiltà con un livello culturale e tecnologico inferiore al nostro come anche civiltà nettamente superiori per cultura, conoscenza e tecnologia. È bene precisare come i termini di “cultura” e di “livello tecnologico” sopra utilizzati non siano, né debbano essere considerati necessariamente, come consequenziali l’uno all’altro.
Il termine “tecnologia” non comporta ineluttabilmente un livello culturale superiore over per cultura non si intenda tanto la sua significante di “conoscenza” quanto quella che si riferisce all’etica, alla morale e ai valori propri di un gruppo sociale. In un comune dizionario al termine cultura troviamo affiancata la seguente dicitura - sintesi armonica delle cognizioni di una persona o di un gruppo sociale, con la sua sensibilità e le sue esperienze; dottrina, istruzione … serie di cognizioni e di esperienze… -. La cultura conduce alla tecnologia ma se ne distacca dalla sua base formante per ampliare il proprio raggio di azione verso loci differenti. La conoscenza e la cultura possono essere paragonate alla grande dicotomia psicologica moderna tra mente e cervello ove per alcuni studiosi le due componenti sono da considerarsi due facce di una stessa medaglia mentre per altri, come ad esempio per la psicologia transpersonale, si tratterebbe di due entità distinte ma interagenti e indivisibili. Il contatto manifesto con civiltà extraterrestri sul nostro pianeta si potrebbe porre unicamente considerando il loro traguardo tecnologico come nettamente superiore al nostro ovvero considerando ed ammettendo la possibilità che questi possano aver colmato quei gap conoscitivi e tecnologici che relegano ancora la nostra specie al pianeta Terra e a pochi pianeti ed asteroidi nelle sue vicinanze. Tale ipotesi non risulta essere impossibile quanto alcuni studiosi tenderebbero a considerare ancora oggi. Il fatto che il nostro livello conoscitivo e tecnologico non ci permetta di aggirare, o superare, i vincoli imposti dalla fisica classica e di nuova concezione non implica necessariamente che questi vincoli non possano, un domani, essere elusi dalla nostra specie. Non si tratta di fantasia quanto di applicabilità e conquista tecnologica.
A livello europeo, ormai da oltre un decennio, si stanno studiando motori a propulsione ad antimateria, sistemi che comunque relegherebbero i nostri viaggi sempre a zone interne del nostro sistema solare. La NASA, dal canto suo, già dalla metà degli anni ’90 ha varato un progetto di ricerca, il Breakthrough Project , il cui scopo principale è quello di studiare ed acquisire le conoscenze per la realizzazione di un motore che sfrutti l’EDST, l’effetto distorsione spazio-temporale, che sia in grado cioè di alterare lo spazio-tempo, distorcendolo, per permettere ad ipotetiche navi spaziali di spostarsi su enormi distanze in tempi limitatamente brevi. Tali studi, pur se ancora ai loro primordi, hanno dimostrato l’applicabilità, la fattibilità e la possibilità di costruire una nave che sfrutti tali principi nei prossimi due o trecento anni. Una eventuale civiltà extraterrestre che avesse risolto tale problema si potrebbe trovare oggi a viaggiare nel cosmo per studiare e ricercare nuove risorse, nuove civiltà e nuovi orizzonti. Il riferimento a Star Trek è tutt’altro che marginale visto che non è del tutto inimmaginabile ipotizzare scenari futuri simili a quelli ipotizzati da Rodebergher, scenari che la comunità scientifica sta iniziando ad accettare solo oggi. Un gruppo sociale che vivesse o si spostasse nello spazio potrebbe imbattersi verosimilmente in nuove forme di vita, forse anche in pianeti abitati. Tale gruppo lascerebbe, con un’alta probabilità, tale civiltà nel più rigoroso isolamento, non attuerebbe cioè quella politica di pubblico contatto che potrebbe dimostrarsi quanto di più distruttivo per lo sviluppo della stessa civiltà. L’evoluzione secondo schemi propri lascerebbe spazio ad una osservazione non partecipante in cui la razza superiore potrebbe studiare gli schemi, i modelli e le vie evolutive proprie di una forma di vita intelligente.
In tale ottica sarebbe altrettanto plausibile ipotizzare che tale civiltà si autoimponga limiti ben precisi evitando il contatto e la colonizzazione di pianeti civilizzati fino al raggiungimento di un livello tecnologico-culturale atto a permettere una “discesa pubblica” e un confronto privo di rischi. Dagli studi emersi negli ultimi trent’anni in Italia, ma non solo, di cui i principali sono quelli condotti dal Dr. Roberto Pinotti, si può evincere che - … come conseguenza del diffuso timore di avere a che fare con qualcosa di troppo differente e troppo difficile da capire, le persone sicuramente ripiegherebbero nell’etnocentrismo in un inconscio, ma logico, sforzo di salvare e rivendicare i valori del loro proprio passato, affinché non vengano persi per sempre nel confronto con un sistema di vita alieno. Questo è un tipico comportamento di tutte le minoranze quando tentano di proteggere le loro identità culturali. Ciò significherebbe la frammentazione di tutte le strutture sociopolitiche multiculturali; dalla Comunità Europea alla CSI agli USA sorgerebbero tendenze centrifughe, creando seri problemi con l’autorità di governi sovranazionali, centrali e federali. Non solo i valori della vecchia Europa, ma anche lo stile di vita americano risulterebbero incapaci di controllare questi generali processi di disgregazione causati dall’improvvisa, quanto inaspettata, perdita di importanza e di credibilità di tutte le nostre istituzioni -.
Non è oggetto di studio di questo nostro lavoro ma le problematica causate ed ipotizzate da un eventuale contatto con altre civiltà nel nostro, odierno, “mondo civilizzato” causerebbero probabilmente uno shock culturale talmente destabilizzante e repentino da sovvertire totalmente quello status quo a lungo maturato negli ultimi millenni. Verso la fine degli anni ’50 lo stesso Carl Gustav Jung, come anche Giordano Bruno oltre 400 anni fa , espressero nelle proprie analisi le problematiche correlate alla “frantumazione” culturale ed intellettuale in cui la nostra civiltà si potrebbe trovare nel caso di tale contatto, frantumazione che si potrebbe verosimilmente paragonare alla differenza intercorrente tra i nostri animali domestici e noi. Non è una ipotesi molto allettante.
Sarebbe allo stesso tempo verosimile un contatto ed una eventuale colonizzazione senza la preoccupazione che tale evento potrebbe causare. Sono anche ipotizzabili varietà di situazioni intermedie meno “invasive” e destabilizzanti come ad esempio la costruzione di colonie che rimarrebbero isolate e non interferirebbero con la crescita e lo sviluppo di una civiltà inferiore. Il punto nodale sarebbe capire se la colonizzazione costituisca, o potrebbe costituire, una regola comune di eventuali civiltà spaziali. Non disdegnandola, ma osservandola come una buona “fucina” di idee ed ipotesi, il mondo della fantascienza ha sempre mostrato come civiltà superiori abbiano evitato il contatto diretto con civiltà a loro inferiori non contaminandole e non interferendo con esse. È verosimile altresì ritenere che la semplice scoperta dell’esistenza di un’altra civiltà progredita potrebbe essa stessa alterare quel continuum culturale e sociale imperante distruggendo anche quella progressione logica, necessariamente monotona ed evolutiva, che si riferisce alla scoperta e alla diffusione delle idee. Altro fattore scarsamente considerato può essere visto nella difficile riconoscibilità che una eventuale tecnologia aliena potrebbe avere nei nostri confronti. Una cultura ed una società arretrate e primitive, o semplicemente inferiori rispetto ai “nuovi vicini”, potrebbe essere basata su basi biologiche anziché meccanicistiche lasciandoci ipotizzare un tipo di civiltà totalmente difforme da quelle che conosciamo e che potrebbe appartenere ai “visitatori spaziali”.
I problemi non nascono solo su tali tematiche, ma anche sulle rispettive terminologie adottate. Pensiamo al termine “primitivo” che abbiamo usato ampiamente utilizzato anche in questo articolo. In riferimento alle materie di cui stiamo disquisendo si tratta di un termine alquanto ambiguo; sul nostro pianeta tale parola viene ad identificare popolazioni che possiedono un tipo di cultura analfabeta e che non hanno sviluppato centri urbani. Tale termine è funzionale sulla Terra ma lo sarebbe anche al di fuori di essa? Allo stesso modo non possiamo escludere la possibilità che una civiltà differente dalla nostra possa essere organizzata attraverso dei pattern che non sono equiparabili alle nostre tradizionali categorie (come religione, arte, scienza, politica, etc.). La religione indica, ad esempio, le modalità attraverso cui l’ignoto e l’insondabile si può trasformare in conoscenza trasmissibile. Tale trasmissione si può attuare attraverso differenti canali culturali come il mito, la leggenda, la tradizione e il racconto orale, ma non necessariamente tale interpretazione dovrebbe applicarsi anche ad un’altra civiltà. Ciò che per noi si fonda su determinate basi culturali, religiose o sociali potrebbero coincidere differentemente in un’altra cultura che li avesse interpretati su piani differenti. Per classificare una civiltà, i suoi ritmi e la sua strutturazione sociale e culturale dovremmo valutare l’atteggiamento e le credenze stesse dell’individuo in riferimento e relazione alle reazioni che questi potrebbero avere all’interno della sua società.
Ottica questa che potrebbe essere ampiamente utilizzata da possibili civiltà spaziali nell’arduo compito di comprendere e studiare una nuova cultura. In tutte le considerazioni compiute nel corso degli ultimi tre millenni su possibili comunità extraterrestri è ravvisabile una continuità logica ed ideologica. Dalla Repubblica di Platone fino ad arrivare alla comunità utopica di Oneida di Noyes (XIX sec.) un filo conduttore comune sembra percorre le storia delle nostre speculazioni su civiltà aliene. Dal punto di vista terrestre tendiamo a vedere queste comunità come un connubio tra scienza, tecnologia e progresso, ma ne siamo veramente certi? Nell’alta probabilità di poterci trovare davanti ogni tipo di civiltà ipotizzabile è altrettanto vero che qualsiasi forma di progresso dovrebbe essere frutto di scoperte ed esperimenti programmati come anche casuali. Il problema di fondo che decine di studiosi si sono posti, e che è applicabile anche ad una civiltà spaziale che studiasse nuovi mondo e nuove culture, verterebbe sulla ricerca del sistema migliore per approcciare lo studio del comportamento culturale e del livello scientifico di una nuova civiltà. D.G. Haring afferma, in uno dei testi capisaldi della moderna antropologia «Il comportamento sociale dell’uomo… è culturale (cioè imparato dagli altri). Chiunque può apprendere in qualsiasi circostanza un nuovo modo di comportamento e sostituirlo ai precedenti schemi di comportamento. Questi dati di fatto invalidano gli studi di laboratorio del fenomeno sociale» .
L’applicabilità di tale concetto potrebbe essere quindi riferita a civiltà spaziali inclini nello studio di una civiltà a loro inferiore. Gli esperimenti che potrebbero essere compiuti su o da una comunità extraterrestre potrebbero quindi implicare delle problematiche di fondo notevoli, ponendo forti vincoli alla previsione di comportamento e allo studio sistematico della relativa cultura. Tali quesiti pongono quindi la forte necessità di dover strutturare un cammino esopsicologico multi-angolare, multi-componenziale e multi-disciplinare teso alla strutturazione di una banca dati e di un iter di ricerca in grado di affrontare e studiare ambiti diversi, problematiche differenti e situazioni complesse nel livello di una visione globale della psicologia delle civiltà extraterrestri. Il lavoro presentato nel seguente numero di SETI & BIOASTRONOMIA costituisce un primo approccio alla problematica che ci riproporremo di ampliare e sviluppare nei seguenti numeri. Il problema di fondo sotteso a questo articolo si basa essenzialmente su un’unica domanda, un quesito che ci riproponiamo in conclusione. Esiste vita nel cosmo? La risposta che oggi potremmo fornire è sicuramente si.
È possibile, anzi inevitabile, che altre forme di vita si siano sviluppate nel cosmo e che possano allo stesso tempo aver sviluppato e maturato società tecnologizzate e progredite. Altre civiltà oltre la Terra sono probabilmente i nostri gemelli dell’universo, i parenti più prossimi e a noi vicini. Tutti gli aspetti delle scienze sociali, psicologiche ed antropologiche giocherebbero quindi un ruolo primario nell’eventualità di un contatto, come anche nella presa di di coscienza ad opera altre civiltà. Altre discipline potrebbero altresì permetterci di capire e comprendere e, nel caso fossimo noi i colonizzatori, di studiare una “nuova civiltà”. Nessun ramo del sapere può avere però la presunzione di studiare un’intera civiltà, i suoi schemi e la sua cultura; l’esopsicologia, l’esobiologia, l’esoantropologia e tutte le altre discipline oggi incentrate nello studio di altre forme di vita dovrebbero arrivare un giorno a fondere realmente i propri ambiti di studio per arrivare a creare quella nuova scienza che alcuni hanno voluto chiamare xenologia.