Izen duen gutzia omen da, dice il proverbio. Tutto quel che ha un nome esiste. Perfino ciò che ai più può sembrare una fantasia azzardata, un parto della fantasia, una leggenda sepolta. Un racconto di Fate, magari. A Donostia-San Sebastiàn, provincia di Guipúzcoa, nel bel mezzo dell’Euskal Herria, ha sede la Sociedad de Ciencias Naturales Aranzadi. Un’associazione che ormai da anni promuove con discreto successo indagini, ricerche ed esplorazioni in tutta la zona approfittando – non poco – della selvaggia bellezza di un angolo di mondo, il Paese Basco, che nei secoli è sempre riuscito a tenersi un passo più indietro rispetto alle luci della pubblica ribalta. Confrontati con il nutrito calendario di attività, i costi di adesione non sono nemmeno così impegnativi.
49 euro per diventare soci – 55 per gli stranieri – ed un vertiginoso sconto che abbassa la quota a 32 per i minori di 21 anni. Forse è anche per questo, stando almeno a quanto magnificato sul suo sito web, che Aranzadi conta ad oggi 1540 soci, 150 dei quali si fregiano del titolo di ricercatori e presiedono alla attività più articolate di investigazione. Quelle che investono campi come la biologia e la storia, l’archeologia e la medicina, l’antropologia e l’etnografia, la geografia e la geologia. Tra i ricercatori ufficiali di Aranzadi, Carlos Galan al momento è forse quello che gode della fama più considerevole. Perché ha firmato di suo pugno un articolo apparso sulle pagine di una prestigiosa rivista scientifica locale in cui rendicontava l’ultima scoperta del suo gruppo. Il Fiume delle Fate. Un corso sotterraneo di qualcosa che dovrebbe essere acqua, ma che acqua non è. Perché contiene così tante infiltrazioni di minerali, principalmente sotto forma di carbonati, da presentare una consistenza unica al mondo. Denso e di colore biancastro. Da bravi speleologi, i baschi guidati da Galan si sono affrettati a garantire che si tratta di un fenomeno assolutamente naturale. Come tale, scientificamente comprensibile, dunque del tutto spiegabile. Hanno estratto i loro campioni di studio, li hanno portati in laboratorio e sottoposti ai controlli più severi ed accurati per testarne consistenza e composizione chimica.
Hanno rinvenuto tracce di gibbsite, cioè idrossido di alluminio. E poi zolfo e calcio. Silice e carbonio. Da ultimo, il gesso che ne favorisce la colorazione particolare. Sono stati esami approfonditi, certo. Eppure, le analisi di Galan e soci, per quanto meticolose, non sono da considerarsi conclusive. Perché quella che è stata rinvenuta nella grotta sotterranea in terra basca è una sostanza che si ritiene originata da precipitazioni di acque sotterranee, non cristallizzata a causa della presenza di una ulteriore componente, la gibbsite appunto, che previene proprio questo effetto. Tecnicamente parlando, il fiume di Galan consiste di una sospensione con fase solida, rappresentata da minerali massimamente sotto forma di carbonati e dispersa in fase liquida. Fin qui, nulla di strano. La cosa singolare è invece che questo tipo di composizione, in genere, è riscontrabile in acque sotterranee soltanto in quantità modestissime ed irrisorie. Scorrendo, tra l’altro, questa soluzione tende ad assumere in fretta uno stato rigorosamente solido, andando così a depositarsi lungo le pareti ipogee. Il ritrovamento di Galan, avvenuto a 90 metri di profondità all’interno di una sperduta caverna nella località mineraria di Alzola, nella sezione nord-orientale dell’Euskal Herria, documenta invece l’esistenza di un rivolo di liquido bianco, tendente al brillante se sottoposto alla luce artificiale e che seguita a scorrere (invece di cristallizzarsi sulle pareti della grotta) per 300 metri buoni prima di sparire nuovamente nelle viscere della Terra.
Così, ponendosi al confine tra la scoperta scientifica ed il ritrovamento misterioso, il rivolo di Galan seguita ad essere trattato con una particolare attenzione. Rinvenuto non di recente, è stato presentato al pubblico solo poco tempo fa, per consentire agli addetti ai lavori di condurre in piena tranquillità una nutrita ed esaustiva serie di analisi. Tra l’altro, mantenendo rigorosamente segreto il luogo esatto del ritrovamento, al fine di evitare il prodursi degli inevitabili codazzi di curiosi che, con tutta probabilità, avrebbero preso a bighellonare in zona. Tutti alla ricerca del Rio delle Fate. Anzi, del moonmilk come viene definito nelle migliori leggende sui Fairies del ciclo bretone. Il Fiume del Latte di Luna in cui, prestando fede alla più vivida tradizione mitologica, si bagnavano dee e fate. Il fatto è singolare, non c’è che dire. Ma quanto a miti, leggende e magia, dal Paese Basco ci si deve attendere questo ed altro. Ancestrale centro di venerazione per le divinità legate alla natura, si dice da più parti che proprio in questa imprendibile regione albergasse il più primitivo dei paradisi. Una terra d’incanto capace di partorire dèi e razze sovrannaturali, esageratamente rigogliosa ed attraversata da in piena. Fiumi di latte, per la precisione.
Così, all’interno di uno scacchiere in cui la scienza sta avendo sempre più spesso ragione sul tempo, riportando alla luce con rigore considerevole i sentieri sopiti che hanno permesso ai popoli di radicarsi in determinati luoghi dopo migrazioni e conquiste e spedizioni, esistono terre e genti destinate a rimanere saldamente ancorate al mistero. L’Euskal Herria, con i suoi due milioni e mezzo di baschi che chiamano casa un angolo di terra che abbraccia i Pirenei occidentali, è uno di questi. Storicamente scisso tra giurisdizione spagnola, è il caso delle provincie di Bizkaia, Gipuzcoa, Araba e Navarra, e sovranità francese, come accade invece per Lupurdi, Bassa Navarra e Zuberoa, in realtà il Paese Basco non sembra avere nulla a che fare né con l’una né con l’altra. L’unica tangibile somiglianza è a dire la verità quella con sé stesso, con quell’identità etnica, culturale e linguistica che è rimasta un rompicapo anche nel Duemila. Dal canto loro, i Baschi non hanno mai dubitato di essere gli originali – e preistorici – occupanti di quelli che attualmente è il territorio spagnolo. Una convinzione, questa, suffragata da alcuni studi che hanno a lungo insistito sulla eventuale discendenza di queste genti delle popolazioni di Cro-Magnon che si stanziarono in epoche remotissime nell’area, lasciandosi dietro utensili in pietra ed oggetti appuntiti in arenaria, quarzo, silicio e basalto scoperti lungo la costa del Golfo di Biscaglia e nelle rive fluviali, ma soprattutto dipinti e graffiti rupestri dei quali le caverne della terra basca e non solo ad oggi abbondano. Perfino alcuni pionieristici studi comparativi a livello antropologico spingono su questo tasto, ravvisando ipotetici parallelismi fisici tra i moderni baschi e l’ancestrale specie d’uomini largamente diffusa nel Paleolitico Superiore.
Medesimo mistero permane circa l’Euskara. Un linguaggio assolutamente unico, alieno rispetto al ben più noto Indo-Europeo, e che ravvisa soltanto poche – e fragili – somiglianze con gli idiomi caucasici e berberi. Una lingua sul conto della quale, tuttavia, ha avuto modo di radicarsi una ed una sola certezza. E’ antichissima. Tanto vetusta che alla fine del Settecento ci fu chi, come l’Abate Dominique Lahetjuzan giunse a definire il basco quale linguaggio originale del Giardino dell’Eden, peritandosi di dimostrare come perfino le denominazioni impiegate per i principali capitoli del Libro della Genesi potessero essere ricondotte in toto all’Euskara. Ridicolizzato in fretta, Lahetjuzan morì nel 1818 e fu presto dimenticato. Almeno finché, circa un decennio dopo, un altro religioso francese di nome Pierre Diharce De Bidassouet non terminò il suo Histoire des Cantabres, giungendo a sentenziare che, secondo le sue ricerche, il basco altro non fosse che l’originale linguaggio parlato dal Creatore.
Se due indizi assommati non originano comunque una prova, va rimarcato come nel medesimo frangente storico, sull’altro versante dei Pirenei un altro sacerdote, Don Erroa, prese a diffondere la teoria dell’Euskara come idioma ufficiale del Paradiso Terrestre. Mentre il suo uditorio prendeva a stigmatizzarlo più o meno bonariamente etichettandolo come un innocuo lunatico, il prete si dimostrò così saldo nella sua convinzione da giungere a mobilitare per l’occasione perfino il vescovo di Pamplona. Che, per buon conto, affidò il giudizio finale nelle savie mani del Capitolo della Cattedrale cittadina. Fu dunque l’augusto consesso a considerare la questione seriamente e, dopo lunghi mesi di dispute e deliberazioni, ad emettere solenne giudizio in favore di Erroa, sottoscrivendo peraltro pubblicamente la singolare teoria del reverendo. Un fatto clamoroso, del quale tuttavia non rimangono che esigue indirette tracce, considerato che la totalità dei rapporti e registri legati al procedimento risultano stranamente svaniti. Contribuendo così ad alimentare ulteriormente l’alone di mistero proprio di questa regione, storicamente amplificato dalla fama indistruttibile di terra isolata ed impermeabile. Eppure, il popolo basco fu ad esempio noto agli esperti navigatori Greci. Ouaskonous, li definirono, Popolo del Capro, in ossequio alla diffusa usanza di sacrificare questo bestie alle loro divinità. Gli invasori Romani, intenti a muovere sull’Iberia, ebbero anch’essi a che fare con i Vasconi, o Vascones, di Navarra.
Gli stessi che, secoli dopo, verranno indicati come Guasconi in terra di Francia. Fedeli al loro pàntheon pagano e strettamente connesso ai cicli della natura, i baschi Gentili lo rimasero estremamente a lungo. Complici le asperità del terreno, i popoli esterni giunti da Roma, dalla terra moresca, o dalle vicine Spagna e Francia non riuscirono mai ad assicurare pienamente il loro giogo su questo angolo di mondo. Così, gli Euskaldunak, i Baschi, assimilarono ben poco degli usi stranieri, dei costumi praticati al di là delle loro provincie, delle fedi che altrove unificavano i popoli. Poi un giorno giunse anche in queste terre lontane il verbo di Kixmi, Cristo. La leggenda vuole che in quello stesso giorno, nei pressi di Ataun, il cielo ad oriente venne occupato da una nube splendente. I Gentili, assai agitati, corsero dal più vecchio e saggio tra i loro sacerdoti, chiedendo lumi. La risposta dell’anziano fu lapidaria. “Kixmi è arrivato, e con Lui la fine della nostra éra” annunciò alla folla. “Lanciatemi ora in un precipizio” ordinò al suo popolo che, fedele, eseguì il suo ultimo ordine. Inseguiti dalla nuvola, finirono per trovare riparo sotto un grande masso nella campagna di Ataun, che è a tuttora la loro sepoltura ed uno degli infiniti luoghi sacri di questa terra. Ad esso vanno aggiunte le miriadi di fonti, pozzi, vallate, picchi e caverne – come quella di Carlos Galan e soci – che fanno da dimora agli dèi tramontati ed ai geni del suolo.
La memoria locale, quella tramandata oralmente e cristallizzata nel sigillo dell’Euskara, è l’ultimo legame che la popolazione intrattiene con il tempo ancestrale dei suoi miti. Specialmente dopo che la Chiesa ha impiegato tempo e fatica inconsuete nello sradicare ogni traccia manifesta. Ultima popolazione d’Europa Occidentale ad essere convertita al Cristianesimo, i Baschi rigettarono per lunghi secoli le prediche dei missionari, confidando piuttosto nel conforto della più tradizionale tradizione magica. Fino al XVII secolo, la zona fu tanto interessata da recrudescenze pagane che le autorità ecclesiastiche locali furono costrette a documentarle con una certa dovizia di particolari, richiedendo a più riprese interventi da Roma. Nel 1609, un funzionario inviato allo scopo da Bordeaux raccolse testimonianze e prove a sufficienza per sostenere che in molte delle diocesi basche sotto giurisdizione francese avessero luogo i famigerati sabba, sovente perfino in terra consacrata, nelle chiese e con la partecipazione dei sacerdoti locali. La simpatia verso gli antichi culti irritò a tal punto le alte sfere della Chiesa Cattolica da dar vita alla più massiccia opera di azzeramento culturale dell’Occidente. 2000 baschi furono formalmente accusati di fronte ad adunanze di piazza da 50mila spettatori. Colpirne alcuni per educarli tutti.
Nel villaggio di Logrono, qualche tempo prima, la Santa Inquisizione ebbe gioco facile nel torchiare una donna del luogo, Mariquita de Atauri, estorcendole una lista infinita di complici nell’adorazione del maligno. Per colmo della sorte, la donna venne perdonata e rimessa in libertà dopo aver dismesso il sanbenito che attestava la sua contrizione, mentre i suoi accusati espiarono pagando il prezzo sommo. Per il rimorso, tornata a casa la donna non esitò a gettarsi tra le acque del fiume che attraversava il paese, annegando. Eppure, l’Euskal Herria fu grandemente risparmiato dalle stragi perpetrate dalle maggiori correnti inquisitorie, domenicani in primis. Questo accadde con buona probabilità anche grazie al radicamento locale di ben altri ordini religiosi, come i gesuiti del basco Ignacio de Loyola, che anzi profusero grande impegno nell’opera di mediazione, spesso di vera e propria traduzione culturale, nei confronti del popolo Euskaldunak. Una buona parte dell’immaginario basco fu così salvata, ma altrettanta parte recise i suoi legami col mondo reale, relegandosi per sempre al piano del mito e della leggenda e scegliendo la via dell’esilio nelle profondità della memoria. O magari affondando nel suolo stesso del Paese Basco, per poi risorgere come per magia ad ére di distanza. Esattamente come è accaduto per il Fiume delle Fate dell’Alzola, tornato a manifestarsi per ricordarci ancora una volta che, analisi scientifiche a parte, tutto quel che ha un nome esiste.
Simone Petrelli
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