Mi ritrovo oramai a sentire notizie sconvolgenti nelle reti nazionali, di padri e madri, amici e conoscenti, sconosciuti che massacrano chiunque, indiscrinatamente, senza cuore e soprattutto...senza comprensione. Si uccide perchè si diventa folli per pochi istanti. Fatti come quelli di un piccolo comune e della grande città del Nord 'avanzato' dimostrano in modo sostanzialmente analogo l'insufficienza qualitativa delle misure di prevenzione adottate dai servizi e la violenza del pregiudizio sul disturbo psichiatrico.
Due fenomeni destinati a rinforzarsi l'uno con l'altro perché il pregiudizio ostacola il lavoro di chi dovrebbe curare e perché lo psichiatra che lavora male rinforza la convinzione sulla incurabilità dei pazienti psichiatrici. Andiamo con ordine, tuttavia. Ragionando sul modo in cui stampa e televisione hanno attribuito con sicurezza ad una follia non meglio specificata questi delitti favorendo l'emozione diffusa di chi lega indissolubilmente fra loro pazzia e violenza omicida. Trasformando in persone pericolose i matti, cioè, e suggerendo, senza filtro di riflessione, l'idea per cui aver gettato giù le mura dell'Ospedale Psichiatrico potrebbe aver significato, nei fatti, aver lasciato la porta aperta ad una violenza che precedentemente era contenuta proprio da quelle mura.
Suggerendo, alla fine, una notizia pericolosa e falsa per due motivi sostanziali: perché le ricerche epidemiologiche dimostrano che i fatti di sangue legati alla follia sono diminuiti e non aumentati con la legge che porta il nome di Basaglia e perché l'esperienza clinica dimostra con chiarezza che quelli davvero pericolosi non sono i matti (quelli che hanno, cioè, dei disturbi psichiatrici evidenti e conclamati) ma persone capaci di nascondere le loro difficoltà dietro una maschera di normalità (quelli che non avrebbero rischiato l'internamento, cioè, neppure ai tempi in cui gli ospedali c'erano).
Quanti psichiatri e quanti servizi di psichiatria, tuttavia, nel corso del loro lavoro, sono in grado di portare avanti seriamente e sino in fondo questo tipo di consapevolezza? Il problema più grave, alla fine, mi sembra proprio questo, la mancanza di una definizione chiara della follia e della pericolosità da parte dei tecnici che dovrebbero essere in grado di insegnarla agli altri. Nessun giornalista e nessun lettore si permetterebbe di ragionare in modo tanto superficiale sui problemi proposti dalla follia, in effetti, se il discorso dei tecnici psichiatri non si traducesse ancora oggi in una pratica e in una divulgazione centrata sui sintomi invece che sui meccanismi, sull'idea della malattia invece che su quella del problema o del disturbo di personalità. Si parla di depressione, ancora oggi, di attacchi di panico o di fobie come se si trattasse di sintomi legati all'azione di qualche strano virus o di qualche strana sostanza che si libera nel cervello e che nessun rapporto ha, alla fine, con la storia e con la vita della persona che ne soffre. Anche se esistono, cominciano ad esistere situazioni in cui il quesito del giudice e quello del buonsenso cominciano ad orientarsi in modo diverso: tenendo conto, cioè, di come funziona la persona, sintomatica o no.
Quando si ragiona di competenze genitoriali e di affidamento di un bambino, ad esempio, o di reato compiuto da un minore dove i Tribunali che si occupano di minorenni (quelli che il ministro Castelli vorrebbe abolire) accettano di non fermarsi alle apparenze della normalità e si avvalgono di tecnici in grado di dare indicazioni sui rischi che si corrono, se non si accetta di farsi curare, quando quella con cui ci si confronta è una disarmonia che riguarda la struttura di una personalità, formata o in formazione, da considerare comunque nella complessità del suo funzionamento. Quello che si dovrebbe fare di fronte ad una persona che chiede il porto d'armi, in fondo, diventa chiaro solo se si guarda il problema da questo punto di vista.
Partendo dall'idea per cui per dare il porto d'armi bisognerebbe andare a fondo sulle motivazioni, più o meno consapevoli, per cui lo si richiede: utilizzando i colloqui, i tests, gli incontri che permettono di ricostruire la storia di una persona, la qualità e lo spessore dei suoi rapporti interpersonali. Affidando la decisione finale ad una èquipe che valuta il problema in tutta la sua complessità e che decide collegialmente: prendendo sul serio e fino in fondo una richiesta che potrebbe rivelarsi, in alcuni casi, una pura e semplice richiesta di aiuto. Quello di cui possiamo essere certi, se non si farà così, è che le stragi compiute da persone con il porto d'armi diventeranno sempre più frequenti. I fatti ci dicono che avere un'arma a disposizione è sufficiente a rendere pericolose persone che avrebbero avuto il diritto di essere aiutate a canalizzare diversamente (e in modo meno pericoloso) la loro aggressività: incontrando la loro rabbia impotente e triste, magari, proprio nel momento in cui si fosse trovato il coraggio di dire di no alla loro richiesta.
C'è una consonanza importante, credo, fra la persona piena di problemi che affida la sua sicurezza ad un'arma e le decisioni di chi ha deciso di affidare alla forza delle armi la pace del mondo e la lotta al terrorismo. Difficile non vedere in un'azione di contrasto svolta contemporaneamente ai due livelli, con pazienza ed umiltà, il dovere di chi crede insieme nella pace e nella possibilità di far crescere i livelli di salute mentale della gente: due aspetti, in fondo, dello stesso problema.
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